Nel percorrere l’ampio invaso della Piazza del Mercato non si potrà non essere colpiti dalla mossa fronte concava — fusione di forme tardo-barocche e riferimenti classicisti — che definisce l’esterno della chiesa di Santa Maria del Suffragio, rubando la scena all’anodino prospetto neoclassico della cattedrale. Il timpano curvilineo dell’edificio delle Anime Sante, unico in città, sovrasta con la sua onda lapidea i tetti dei caseggiati limitrofi, un tempo più bassi degli attuali, arrivando quasi a suggerire — assieme al perno urbano tracciato dalla cupola — un asse trasversale alla lunghezza della piazza, che parte dall’antica zona dell’Acconcio (via Patini) e ha il suo fuoco nell’accentrante facciata della chiesa.
Note d’architettura e d’arte
Ma il foro cittadino fu solo l’ultimo, più rimarchevole approdo cui giunse la confraternita che si occupava in città del culto delle anime dei defunti, al fine di strapparle − tramite le preghiere rivolte alla Vergine − alle pene purgatoriali: posto sopra l’allegoria della Morte, il grande tondo a rilievo sul finestrone di facciata mostra proprio Maria additare al Figlio le anime dei trapassati, avvolte dalle fiamme mondanti, facendosi loro interceditrice. Prima sede del sodalizio era stata la chiesa di Santa Maria di Roio; in seguito, esso era riuscito a ottenere un proprio luogo di culto nell’area oggi occupata dall’oratorio di San Giuseppe dei Minimi.
Non sappiamo molto di questa primitiva costruzione, di proprietà del Capitolo di San Biagio, ma essa aveva ricevuto nel 1679 un ammodernamento ideato da Francesco Bedeschini, caposcuola del barocco cittadino: si parla nei documenti di «volta e linternino», dunque l’ambiente doveva configurarsi come una pianta centrale cupolata. Due pregevoli altari di questo primo edificio sono giunti sino a noi, reimpiegati nelle testate del transetto dell’attuale chiesa del Suffragio: furono realizzati dai marmorari Pietro Pedetti e Bernardo Ferradini, e dal loro garzone Giacomo Peduzzi. Non erano ancora terminati quando, sull’edifico in via Roio, si abbatté il terremoto del 1703. Fu questo terribile sisma che,
colpendo duramente l’oratorio, portò a edificarne uno del tutto improvvisato e temporaneo in un sito prospiciente la piazza: tale baracca, in legno, era una delle circa novanta che andarono a configurare quello spazio urbano come una sorta di area di accoglienza postemergenziale ante litteram.
Nel 1708, le accresciute possibilità economiche del pio sodalizio — alimentate dal sentimento di pietà popolare per le 2.500 vittime causate dal terremoto — portarono alla decisione di edificare in quello stesso luogo una chiesa stabile, abbandonando definitivamente la vecchia sede. Prospettare sulla piazza cittadina a precipua vocazione commerciale — «quasi della grandezza di Navoni in Roma» e luogo di convergenza di ben «sedici stradi», come la descriveva icasticamente il Fonticulano (1582) — costituiva un indubbio vantaggio; ciononostante, il sito comportava la sconveniente prossimità con una malfamata taverna.
colpendo duramente l’oratorio, portò a edificarne uno del tutto improvvisato e temporaneo in un sito prospiciente la piazza: tale baracca, in legno, era una delle circa novanta che andarono a configurare quello spazio urbano come una sorta di area di accoglienza postemergenziale ante litteram.
Nel 1708, le accresciute possibilità economiche del pio sodalizio — alimentate dal sentimento di pietà popolare per le 2.500 vittime causate dal terremoto — portarono alla decisione di edificare in quello stesso luogo una chiesa stabile, abbandonando definitivamente la vecchia sede. Prospettare sulla piazza cittadina a precipua vocazione commerciale — «quasi della grandezza di Navoni in Roma» e luogo di convergenza di ben «sedici stradi», come la descriveva icasticamente il Fonticulano (1582) — costituiva un indubbio vantaggio; ciononostante, il sito comportava la sconveniente prossimità con una malfamata taverna.
Il Capitolo della cattedrale — appoggiato anche dal Capitolo di San Biagio, che non voleva perdere gli introiti che gli derivavano dall’affitto del primitivo oratorio — tentò di opporsi alla costruzione del nuovo edificio. Temeva, infatti, le conseguenze della perdita dell’esclusività dell’affaccio su piazza della propria chiesa, il duomo di San Massimo, che ancora permaneva nella triste condizione di rudere: non erano tempi facili per la Chiesa aquilana che, in un frangente tanto delicato, accusava il peso di una lunga vacatio della sede vescovile (1702-1718). Nel 1712, intanto, si iniziò a rafforzare la baracca con mura in mattoni: solo grazie a questo intervento, essa poté scampare ad un incendio che ne incenerì la sagrestia. Nel 1713 la Congregazione dei Vescovi e Religiosi autorizzò la nuova costruzione, determinando la chiusura del vicolo della «malacucina». Dopo una prima perizia di massima di Pietro Paolo Porani, la progettazione della chiesa fu affidata a Carlo Buratti (1651-1734). La scelta di un architetto romano — fors’anche caldeggiata dal confratello Pietro Marchi, suo parente aquilano — rientra nei percorsi storici che portarono la città a divenire, nel post-sisma, fecondo melting pot di tendenze stilistiche allogene e tradizioni costruttive locali: Fontana, Contini, Cipriani, Buratti, Barigioni, Fuga sono solo alcuni degli architetti formatisi nella capitale pontificia che — assieme a stuccatori lombardi (es. Piazzola, Ferradini, Bossi) e pittori partenopei e veneti (es. Cenatiempo, Damini) — contribuirono a ricostruire la città devastata, rendendola à la page, senza cancellare i segni della sua storia plurisecolare. La pianta adottata fu quella gesuitica, esemplata, cioè, sulla chiesa del Gesù di Roma: una monoaula coperta a volta e aperta da brevi cappelle laterali, culminante in un transetto non sporgente, sormontato da cupola. Compositivamente, l’interno è scandito da un’alternanza pulsante di interassi stretti (chiusi) e larghi (aperti in cappelle), dando luogo alla cosiddetta travata ritmica. Alla realizzazione della scenografica facciata borrominiana — la nota forse più appariscente dell’edificio — si provvide solo sessant’anni dopo (1770-1775), su progetto dell’architetto Giovan Francesco Leomporri, nativo di Cuvio ma molto attivo a L’Aquila, anche in ambito gerosolimitano. Trovandosi la chiesa del Suffragio sul fianco della piazza, normale cioè all’asse prevalente, la facciata è pensata per una visione diagonale e si presta — con l’estrosa dominante concava, il cassettonato della calotta terminale, il ritmo sincopato delle partiture verticali, l’aggetto dei cornicioni, le numerose bucature e l’avviluppo degli orecchioni laterali flessi — a essere percorsa da un’elegante trama chiaroscurale, cangiante secondo le diverse incidenze della luce e del punto di osservazione. Delle statue che ornano la facciata, quelle dell’ordine superiore, raffiguranti San Sisto e San Gregorio, sono opera di Filippo Zughi da Bassano di Sutri (1777); quelle inferiori, che rappresentano Sant’Antonio da Padova e San Nicola da Tolentino, vi furono collocate solo nel 1908. Elemento rilevante nel panorama urbano risulta l’alto tiburio cilindrico della cupola, successiva al 1805- 1806, e tradizionalmente attribuita all’architetto Giuseppe Valadier (1762- 1839). […]
Dott. Gianluigi Simone
Storico dell’arte
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